Ho appena finito di leggere un’intervista al professor Umberto Galimberti sulla deriva scolastica e alcuni consigli di ordine intellettuale e filosofico per tamponare e correggere la direzione catastrofica.
Condivido con il professore il presupposto e la preoccupazione su ciò che sta avvenendo nell’istituzione scuola. Condivido il rammarico sul fatto che la fascia a più alto rischio, più abbandonata e trascurata sia quella della scuola media, età in cui dovrebbe esserci ancora cura e forse più formazione degli educatori. Proprio questa fascia d’età infatti si caratterizza per la richiesta di nuovi modelli oltre quelli genitoriali, che dovrebbero essere presi come riferimento, come guide, come ideali per la vita. Chi accompagna questi ragazzi dovrebbe avere la preparazione di un Virgilio con dei piccoli Dante sia sul mondo delle emozioni (come affrontarle, come sostenerle) sia per quel che riguarda l’alimentare sogni, ideali, prospettive di orientamento, realizzazione nella vita e nella società a partire dal riconoscere e coltivare passioni, competenze e capacità di ciascuno.
Più lontana sono invece da Galiberti su altre nostalgie, sostenere che i bulli debbano essere tenuti di più a scuola per essere educati alle emozioni attraverso la letteratura, e di contro l’analizzare quasi nostalgicamente i metodi di insegnamento/educazione utilizzati nel 900 (bacchette sulle mani, pugni o sberle in faccia, umiliazioni).
Galimberti prosegue (e condivido) dicendo che ai ragazzi manca un tessuto sociale in cui operare e di cui sentirsi parte al di là di quello tecnologico e irreale cui passano gran parte della giornata. Ma chiedo: chi ha creato questa società? Chi l’ha fornita ai ragazzi? I ragazzi se la stanno trovando “brutta e pronta” e le istituzioni scolastiche non hanno nessuna intenzione di fare dietro front rispetto a queste formule dissociative. Il pnrrr che finanzia milioni di euro per la scuola 2.0. non l”hanno approvata i ragazzi, i bulli, gli adolescenti cattivi che con i loro sintomi mostrano il vostro/nostro fallimento sociale di anni di approccio individualista e consumista della vita. Il pnrr finanzia computer e strumenti digitali e non -anche- forni per la cottura di argilla, laboratori di falegnameria, arredi caldi per le scuole che invece cadono a pezzi o di materiali che ahimè si devono chiedere a genitori e insegnanti. Non finanzia gite vive in regioni di arte e cultura o percorsi e attività specializzate che invece si devono richiedere gratuitamente ad amici della scuola. Se non posso toccarla con mano la vita, non posso nemmeno sentirla, se non posso sentirla, non posso emozionarmi e non posso ricalibrare me stesso in funzione della vita e quindi di un sistema sociale. Se mi si costringe solo a immaginare attraverso un libro o uno schermo non posso sentire se la mia emozione corrisponde al reale, se, quando sarò lì con lei, con la realtà, con la vita vera, la mia emozione sarà stata onesta o illusoria. Perché è sempre la realtà la misura vera, una realtà dalla quale invece scappiamo e con la quale non sappiamo stare a favore di una virtuale.
Per quel che riguarda i dsa è ormai diventata un cliché la frase: “ai miei tempi non c’erano tutte queste certificazioni!” Vero, verissimo. Ma cinquanta anni fa a scuola si imparavano tre poesie, qualche espressione, il flauto e a fare righe di corsivi (senza sminuire o screditare, anzi). Ora i ragazzi sono riempiti e ingozzati di tomi e tomi di nozioni vuote e sterili proprio perché non gli diamo il tempo di trovare riscontro nella vita. Stare otto ore a scuola non è sintomo di emancipazione se la scuola offre solo nozioni e computer. Non c’è più un collegamento col sociale perché non permettiamo ai ragazzi di costruirlo questo sociale ma chiediamo loro di ripetere e alimentare quello che noi abbiamo costruito per loro. Di fatto le interrogazioni e le verifiche non valutano le competenze (saper fare e saper essere) ma i contenuti appresi ossia se si è in grado di ripetere a memoria date e nozioni (sapere). Siamo noi che Stiamo fallendo, non i ragazzi. Loro sono un sintomo del nostro ‘fallimento’ o della nostra malattia. Sta a noi prendercene cura.
V.L.